D1 — Nel 2013 Timothy Morton pubblica Hyperobjects, un libro al quale il nostro disco è ispirato. (Per avere un’idea di cos’è un iperoggetto, pensa al riscaldamento globale, che è: non-locale, viscoso, esteso nel tempo, ecc. ecc.). Morton nel suo libro fa anche vari esempi di hyper-music, passando dai My Bloody Valentine a The Well Tuned Piano di La Monte Young. (Se sei interessato, qui puoi ascoltare un mixtape fatto dai ragazzi di Not con alcune selezioni sulla base dei nomi fatti da Morton). Ora, senza necessariamente conoscere nel dettaglio ciò che dice Morton nel libro, se tu dovessi immaginare una hyper-music, quali caratteristiche dovrebbe avere secondo te? Perché?
Francesco - Una hyper-music può essere considerata come qualsiasi combinazione di hyper-sounds? Ok, non si dovrebbe rispondere a una domanda con un’altra domanda. Ma già i suoni sono una piccola porzione di ciò che vibra; la musica ne è un ulteriore, infinitesimo sottoinsieme. E la contro-domanda riparte dall’utopia di Murray-Schafer (il mondo come un’immensa composizione musicale, “intonata” da leggi superiori a quelle umane) ma arriva a ribaltarla.
Forse una hyper-music può portare addosso i sintomi degli iper-suoni. O costruire mappe di iperoggetti (come rappresentare in musica il riscaldamento globale?). Oppure può esibire (nel senso migliore del termine) il lavoro di umani intenti ad avere a che fare con intelligenze artificiali o qualsiasi altra entità sovra-, pre- o non- umana (animali, piante, minerali, codice genetico, cavi elettrici, software e hardware, l’insieme di tutte le molecole d’acqua del pianeta, …). L’installazione di qualche anno fa “The Fragmented Orchestra” era già hyper-music, o solo una blanda rappresentazione di hyper-music?
D2 - L'altro tema portante di dTHEd è la neurodiversità. Per i neurotipici, immaginare la vita di un neurodiverso è estremamente complesso, al limite dell'impossibile. È dunque lecito chiedersi se sia possibile per dei neurotipici addirittura creare dell'arte ispirata e fruibile da neurodiversi. Secondo te, cosa si potrebbe fare e in che maniera dovrebbe differenziarsi dall'arte per neurotipici? Ha senso creare un'arte con queste premesse o dobbiamo immaginare che l'arte nella sua vastità possa già soddisfare anche i neurodiversi?
Francesco - Per rispondere a questa domanda me ne serve un’altra: “a cosa serve l’arte?”. Artefatti per “neurodiversi" sono auspicabili e fondamentali. C’entra fino a un certo punto, ma penso per esempio alla progettazione dei giardini per malati di Alzheimer: si tratta di applicare delle norme in modo soggettivo, e la progettazione stessa diventa contributo sperimentale.
Teoricamente l’arte, nella sua vastità, può già “soddisfare" i neurodiversi proprio perché è vasta e potenzialmente universale. Inoltre, tra i produttori di arte che amo di più ci sono tanti neurodiversi. L’arte però è inesauribile e si nutre di cultura e conoscenza, per cui qualsiasi nuova teoria sulla neurodiversità può contribuire a quella vastità. Domanda ancora peggiore: “cos’è l’arte?”. Che sia l’imitazione della natura (cos’è la natura?) nel suo modo di operare o che sia quella a cui pensa Guattari in Chaosmose, certamente ha senso pensare ad arte per neurodiversi.
Quindi sì, ha senso produrre arte rivolta ai neurodiversi, per esempio (ma non solo) se questo implica cercare di mettersi nei panni di chi è diverso da “noi”, o applicare degli schemi riconoscibili dai neurodiversi. Ha senso non solo per soddisfare le “loro" esigenze, ma anche per soddisfare il nostro bisogno di comprenderli. Usare “loro” e “noi” non mi piace, mi piace poco anche “neurotipici” (siamo tutti neurodiversi uno dall’altro) anche se comprendo le ragioni dell'impiego questo termine. Se partiamo dal presupposto che qualsiasi essere vivente e qualsiasi cosa siano interessanti, allora ha senso creare arte per chiunque sia in grado di farne uso.