D1 — Nel 2013 Timothy Morton pubblica Hyperobjects, un libro al quale il nostro disco è ispirato. (Per avere un’idea di cos’è un iperoggetto, pensa al riscaldamento globale, che è: non-locale, viscoso, esteso nel tempo, ecc. ecc.). Morton nel suo libro fa anche vari esempi di hyper-music, passando dai My Bloody Valentine a The Well Tuned Piano di La Monte Young. (Qui puoi ascoltare un mixtape fatto dai ragazzi di Not con alcune selezioni sulla base dei nomi fatti da Morton). Ora, senza necessariamente conoscere nel dettaglio ciò che dice Morton nel libro, se tu dovessi immaginare una hyper-music, quali caratteristiche dovrebbe avere secondo te? Perché?
Daniele - Conosco, in realtà, e apprezzo l'opera di Morton; anche al netto di alcune critiche che mi sentirei di condurre.
Nello specifico della hypermusic, si tratta di un tema su cui mi arrovello da anni e che mi sta particolarmente a cuore.
Come è sempre nel mio rapporto con la musica, oltre e al di là dell'ossessione razionale e intellettuale, molto, moltissimo, fa la controparte istintuale. Per questo la risposta potrebbe cambiare al passare delle stagioni.
In generale, anzi, in assoluto, ho tuttavia un pensiero fisso in testa. Una sorta di motore immobile. La hypermusic è per me all'incrocio tra il rumore più puro, stratificato ed esasperato, e i suoni quotidiani del mondo. Field recordings e noise. Chris Watson e Tribulation di Skullflower.
Allo stesso tempo, si muove lì dentro, o intorno, o a fianco l'elettronica di pura materia e concetto (à la Autechre, per intenderci e/o fissare un paletto) e tutto quello che germina, elettronicamente, tra beat e colonne sonore e jingle pubblicitari ed effetti sonori di computer o cellulari o device vari ed eventuali.
Sotto, in fondo e al centro: il suono del corpo umano e della materia fisica.
E dunque, in totale: il suono della biosfera, della infosfera e della noosfera diventano l'ipermusica che - non - conosciamo.
D2 - L'altro tema portante di dTHEd è la neurodiversità. Per i neurotipici, immaginare la vita di un neurodiverso è estremamente complesso, al limite dell'impossibile. È dunque lecito chiedersi se sia possibile per dei neurotipici addirittura creare dell'arte ispirata e fruibile da neurodiversi. Secondo te, cosa si potrebbe fare e in che maniera dovrebbe differenziarsi dall'arte per neurotipici? Ha senso creare un'arte con queste premesse o dobbiamo immaginare che l'arte nella sua vastità possa già soddisfare anche i neurodiversi?
Daniele - È una sfida bella e importante da mettere in campo.
Credo tuttavia abbia due criticità principali: in primo luogo, l'arte, se è arte, cioè se imprime una svolta o un cambio di qualche tipo alla propria e altrui visione del mondo, non ha o non dovrebbe avere in sé ristrettezze di sorta. Anche quando nasce da un humus o un contesto estremamente definito e particolare e specifico dovrebbe potersi rivolgere all'Altro, anche solo per estremo rigetto, se non per piacere o interesse.
Per questo, puntare a priori a un'arte "neurodiversa" è in parte una contraddizione in termini, secondo me. Sogno un mondo privo di quote rosa, di etnie o generi percepiti come deboli; un mondo dove l'arte vale per il valore in sé, non per lo sfruttamento o la politicizzazione a posteriori dell'oggetto mediale e di chi l'ha prodotto. Un mondo dove siano pienamente comprese tutte le differenze, introiettate, digerite e sublimate.
D'altro canto capisco la necessità pratica e "sociale", per così dire.
Ma qui sta la seconda criticità: come individuare gli elementi di neurodiversità, in uno spettro di caratteristiche ed elementi così difformi? In una fascia di fruitori e creatori che magari, tra l'altro, non ha nessuna voglia o intenzione di essere ulteriormente atomizzata e selezionata in un bersaglio ad hoc.
In fondo, non sono già abbastanza neurodiversi Artaud e Burroughs e chiunque li accompagni?
Resta il dubbio.
Mi attira la sfida.